Potrebbe anche apparire fuori luogo parlare di posizionamento politico nel pieno di una crisi istituzionale, eppure – a nostro avviso – questa potrebbe rivelarsi la migliore chiave di lettura sia per comprendere la crisi, sia per immaginarne gli sviluppi.

Se volessimo stratificare “le sinistre”, potremmo dire che lo spettro andrebbe dalla visione novecentesca, leninista, del “soviet” alla visione, certamente, più moderna di liberal-socialismo.

L’interpretazione novecentesca della società nell’articolazione delle teorie sulla “giustizia sociale” è probabilmente alla radice delle politiche di redistribuzione della ricchezza. Proviamo a sintetizzare questa visione in una didascalia: “poiché tutti contribuiscono alla ricchezza del Paese, dall’imprenditore all’operaio, è giusto che tutti ricevano una eguale quota di tale ricchezza”, ma questo evoca lo spettro della lotta di classe e dell’antagonismo tra “proletariato” e “padroni”.

Ben si comprende come questa interpretazione della società tenda all’appiattimento dell’individuo non solo in termini di reddito individuale, ma – soprattutto – in termini di ruolo sociale: in mancanza di adeguati stimoli (anche, ma non soltanto) economici, potrebbe venire meno la spinta al miglioramento individuale.

L’estremo opposto a tale paradigma novecentesco è il liberal-socialismo che, per semplicità espositiva, riassumiamo nella idealità e nella identità del Partito democratico americano di Clinton o di Obama, ma del quale ritroviamo i concetti base nelle politiche di Blair, di Schröder o di Macron.

Possiamo tralasciare la palingenesi del liberalsocialismo, evitando quindi di fare sfoggio di citazioni di Turati, Rosselli, Croce o Saragat, ma non possiamo non dire che probabilmente all’origine della visione liberalsocialista in Italia è necessario porre il Partito d’Azione di Calamandrei e Fiore e le sue frammentazioni successive in socialisti, socialdemocratici, liberali, repubblicani e radicali.

Tuttavia, almeno in Italia, la vera “maturazione” del pensiero è stata ottenuta soltanto negli anni ottanta nel Partito Socialista, durante la segreteria di Bettino Craxi, allorché la concezione liberalsocialista è stata elevata a riferimento culturale della sinistra riformista italiana.

In quegli anni, infatti, la sinistra riformista ha iniziato a emanciparsi dalla visione “marxista” e ha iniziato a riconoscere il ruolo “sociale” dell’impresa nell’economia moderna ed ha, soprattutto, smesso di inseguire l’obiettivo della “giustizia sociale”, già precedentemente intesa come redistribuzione brutale del reddito, iniziando a perseguire quello della “parità sociale”, ovvero delle pari opportunità per tutti i cittadini.

Merito di tale visione liberalsocialista è stato anche la promozione dell’individuo e del pluralismo sociale ed economico quale presupposto del pluralismo politico. Del resto, nessuno di noi può ragionevolmente immaginare infiltrazioni “comuniste” nel Partito democratico d’oltreoceano cui abbiamo precedentemente accennato, ma certamente ognuno di noi intravede la visione “sociale” emergere dalla sensibilità dimostrata nell’attenzione alle classi più deboli, alla sanità pubblica, all’immigrazione vista più come risorsa che come complicazione.

In Italia la visione socialista dello Stato si è posta fin dalle origini, fin dagli anni ’20 dello scorso secolo, in contrapposizione con quella comunista e tali attriti si sono sicuramente inaspriti dopo la svolta “culturale” verso il liberalsocialismo impressa da Craxi al Partito Socialista e mantenuti nonostante, nel frattempo, il Partito Comunista si fosse a sua volta evoluto nell’eurocomunismo, una forma più “democratica” e più vicina alla visione socialista.

Il liberalsocialismo supera l’impianto statalista dell’economia, proprio del comunismo, e sostiene la necessità di una economia mista (pubblica e privata) in grado di fornire allo Stato i mezzi per perseguire traguardi di interesse collettivo, con l’obiettivo ambizioso di unire questo tipo di economia mista con lo sviluppo sostenibile.

È, dunque, possibile anche in Italia essere “progressisti” senza essere comunisti.

A ben riflettere il sacrificio di Aldo Moro (che – per certi aspetti – ha rappresentato il difficile tentativo di sintesi tra la filosofia legata alle radici cristiane e, quindi, ai concetti di equità sociale proprie del cristianesimo, e l’evoluzione della società con sempre più insistenti sollecitazioni “liberal” provenienti dalla società consumistica americana) è la sublimazione del fallimento di qualsiasi manovra conciliatrice degli attriti evidenti tra sinistra massimalista e sinistra riformista. Attriti che, per moltissimi aspetti, si mantengono tutt’ora e che è giunto il momento di risolvere.

La globalizzazione ha invaso, che ci piaccia o meno, la nostra società del terzo millennio: acquistiamo beni e servizi attraverso i nostri smartphone in luoghi immateriali, i più giovani – non di rado volontariamente – cambiano frequentemente il proprio lavoro o scommettono in Startup innovative, le fabbriche non sono più quelle di inizio 900, in parte perché automatizzate dalla robotica, in parte perché luoghi di assemblaggio di parti realizzate in sedi diverse, spesso lontane tra loro. Non fa eccezione a queste regole la filiera agroalimentare, la cultura, il turismo, la medicina, le scienze e qualsiasi altra attività umana immaginabile.

In questa società del terzo millennio ha davvero ancora senso parlare di “giustizia sociale” o, come noi crediamo, è più importante fare riferimento alla “parità sociale”? Quale sinistra interpreta le necessità della società moderna? È questa la “vera domanda” che coloro che si riferiscono idealmente alla sinistra dovrebbero porsi.

Pochi giorni fa è stato celebrato il centenario della nascita del Partito Comunista Italiano, il 21 gennaio. Eppure, dopo un secolo, la sinistra italiana è ancora radicata al confronto tra riformisti e massimalisti.

Con la caduta del Muro di Berlino lo statalismo ha ceduto il passo al capitalismo seppure resti certamente vero che esso debba essere opportunamente addomesticato.

È necessario utilizzare la massima chiarezza possibile: la sinistra italiana che tradizionalmente si riferisce alle posizioni massimaliste di Togliatti, quella comunista per intenderci, è fallita perché la “lotta di classe”, espressione operativa dei temi di “giustizia sociale”, è stata abbondantemente infiltrata da temi surrogati che pescano nel disagio senza che, però, a tale disagio diano soluzione.

Ne è plastica rappresentazione l’ascesa dei movimenti “populisti” che hanno dato voce alle difficoltà dell’Uomo del terzo millennio, ma che non sono state in grado di rappresentare la vocazione di parità sociale, vera missione cui l’attuale sinistra dovrebbe guardare con interesse, piuttosto che ostinarsi a proseguire nel solco di idealità non più attuali.

Del resto, proprio per evitare la necessaria emancipazione, per restare in qualche modo ancorata ai principi massimalisti di Togliatti, una cospicua parte della sinistra italiana ha preferito appiattirsi sulle posizioni populiste, scambiando il qualunquismo per la “nuova” lotta di classe senza rendersi conto di rischiare di perdere l’occasione per rispondere ai bisogni reali dell’Uomo moderno che, piaccia o meno, invocano pari opportunità e pari dignità sociale.

La banalità della politica italiana attuale è probabilmente l’effetto della perdita dell’indirizzo ideale e della perdita di una classe di intellettuali, caduta sotto i colpi violenti del giustizialismo di una parte della magistratura la quale ha invaso la scena e il dibattito politico, relegando il pensiero in circoli ristretti dai quali ha difficoltà a emergere sia per l’insufficienza degli strumenti divulgativi, sia per l’involuzione della capacità di percezione generale, sempre meno abituata al ragionamento complesso e sempre più vittima degli slogan pubblicitari.

La terza crisi di governo della 18ª Legislatura, che stiamo vivendo in questi giorni, è effetto e sintesi della Politica derubricata a campagna pubblicitaria che ha brutalmente sostituito i vuoti intellettuali; è effetto e sintesi dell’enfasi prestata alla “visibilità” e al consenso mediatico che ha occupato violentemente il vuoto del campo politico. Spazio forse anche favorito dal massimalismo di una parte della sinistra la quale ha idealmente utilizzato l’arma dell’inchiesta giudiziaria che ha ulteriormente svuotato il campo intellettuale inasprendo, piuttosto che risolvere, le distanze profonde che si sono ormai create tra i cittadini e la politica.

Si deve riconoscere quanto chi ha definito una parte della sinistra “acefala” abbia colto perfettamente nel segno: il vuoto lasciato dalla perdita della questione sociale, dalla forzata retrocessione a “memoria” della corrente massimalista ha reso una parte della sinistra italiana disorientata, un canotto con un solo remo che gira su sé stesso, senza raggiungere alcun porto nonostante gli sforzi.

Giuseppe Conte non è un politico, questo bisogna chiarirlo: lo ha dimostrato la sua conduzione dell’ultima crisi per gestire la quale ha compromesso la “dignità” istituzionale della Presidenza del Consiglio. Le dimissioni presentate dopo la vana ricerca di consenso ha ridicolizzato il ruolo istituzionale del Presidente del Consiglio; Giuseppe Conte è sopravvalutato a causa dei sondaggi di gradimento che sembrano avere sostituito, nella campagna pubblicitaria in cui siamo perennemente immersi, le capacità più propriamente politiche.

Questo è ancora più drammatico nel momento attuale perché l’Italia, che si è mutilata della propria rappresentanza parlamentare con l’ultimo referendum, deve necessariamente gestire l’enorme debito pubblico che ci accingiamo a contrarre (e che non è ancora detto che riusciremo a ottenere) senza che siano stati disegnati percorsi virtuosi di crescita per il Paese.

Davanti a questo scempio della politica è obbligo morale della sinistra “tornare” alla vocazione socialista riformista per non consegnare le Istituzioni al potere giudiziario o ai “tecnici” o, peggio ancora, a algoritmi che ci dicono cosa pensare.

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