Mi preoccupano molto le disuguaglianze sociali; mi irritano quelle in sanità.

Nella conferenza stampa del 22 settembre 2020, tenuta all’indomani delle elezioni regionali e della consultazione referendaria, il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, ha – tra l’altro – affrontato il tema degli investimenti in sanità ed ha chiesto al ministro Roberto Speranza di presentare un piano della nuova sanità italiana suggerendo alcune linee di indirizzo.

L’impegno fa onore a Zingaretti, ne prendiamo atto. «Noi dobbiamo costruire la migliore sanità del mondo» – ha proseguito il segretario del PD – e ribadisce «l’utilizzo dei canali di finanziamento che provengono del MES». Ha poi aggiunto che «sarà importante entrare nel merito delle cose concrete che si possono fare in termini di investimenti su ospedali, nuove tecnologie, nuovi sistemi di cura, territorialità, sanità domiciliare, televisita digitale, ecc.»

Quanta carne al fuoco! Cosa manca nelle parole di Zingaretti? Mancano un paio di termini che mi sarei aspettato che egli pronunciasse: “universale” e “pubblica”.

Tutti gli interventi supposti da Zingaretti – tutti, nessuno escluso – rischiano di restare nella dimensione della progettualità fintanto che tali interventi non rappresentino standard universamente fruibili in tutto il territorio nazionale: non è possibile in tema sanitario, in tema di salute pubblica, accettare disuguaglianze tra un’area geografica e l’altra dello stesso Paese.

Gli investimenti in sanità dovrebbero iniziare dal rendere quindi “universale” la risposta alla richiesta di salute dei cittadini tanto al Nord quanto al Sud, così come previsto dall’articolo 32 della nostra Costituzione.

Uno dei “problemi” del nostro Servizio Sanitario, forse il principale, è la sua frammentazione avvenuta con la modifica dell’art. 117 della Costituzione nel 2001 che ha concesso il controllo della salute dei cittadini alle Regioni, consentendo il nascere (e perpetuarsi) di profonde differenze tra il Nord e il Sud della Penisola.

Tale frammentazione è stata, inoltre, esasperata dall’impegno delle Regioni di ripianare il diffuso indebitamento degli anni precedenti generato dalla gestione “allegra” dei finanziamenti pubblici al Servizio Sanitario Nazionale, soprattutto negli anni ’90.

Con il passaggio alla “aziendalizzazione” del Servizio Sanitario, infatti, il finanziamento non è più avvenuto “a piè di lista”, ma secondo standard ben definiti. L’argomento è molto complesso e cerco di semplificarlo al massimo: fino alla introduzione del cosiddetto decreto Bindi (L. 502/1992) il finanziamento è avvenuto con il pagamento del conto delle spese che ogni USL ha sostenuto durante l’anno; successivamente, a seguito della aziendalizzazione, le cose sono cambiate e ogni Azienda Sanitaria è stata sostanzialmente finanziata in base alla sua capacità di erogare servizi.

Attualmente, adesso che quasi tutte le Regioni, alcune con enormi sacrifici, hanno ripianato i debiti accumulati, il finanziamento avviene sostanzialmente per quota capitaria, ovvero l’insieme della massa finanziaria è ripartita per il numero di abitanti e ogni Regione riceve il finanziamento proporzionalmente alla propria densità popolativa. Inoltre le Regioni ricevono il pagamento delle prestazioni dei residenti in altre Regioni che decidono di ricorrere alla sanità di una Regione diversa da quella di residenza. Tale pagamento di prestazioni è sottratto alla quota di finanziamento ricevuta. È come se la Basilicata (o qualsiasi altra Regione) pagasse la fattura di una prestazione sanitaria al Veneto (o a qualsiasi altra Regione che la eroga).

Questo, per sommi capi, il sistema di finanziamento pubblico del Servizio Sanitario di ogni Regione. Da questa massa finanziaria che ogni assessorato regionale ha a disposizione è pagata anche la sanità privata convenzionata che, con rarissime eccezioni, non si impegna nel sistema di emergenza e urgenza, ma – in via preferenziale – gestisce l’attività sanitaria “in elezione” perché maggiormente redditizia.

Il discorso è molto complesso e non può essere liquidato nel breve spazio di un articolo (chi volesse potrà approfondire nel mio “La crisi del Sistema Sanitario Nazionale”, piccolo pamphlet con alcune idee per riportare la salute pubblica sui binari della fruibilità universale). Qui possiamo soltanto indicare alcune modifiche che andrebbero fatte a monte di qualsiasi finanziamento e, prima tra tutte, ricondurre la salute dei cittadini alla competenza del Ministero e adottare misure su base nazionale per la regolamentazione della sanità privata nel suo rapporto con quella pubblica.

In mancanza di tali interventi propedeutici si correrà il serio rischio di continuare a mantenere profonde differenze nell’assistenza sanitaria tra le varie Regioni italiane. Soprattutto se, per come insistono soprattutto le Regioni del Nord, si dovesse seriamente adottare il criterio della “spesa storica”.

La “spesa storica”, infatti (e, anche qui, lo accenniamo appena) prevede il finanziamento dei sistemi sanitari regionali sulla base dei soldi pubblici impegnati in assistenza dai singoli assessorati: più hanno speso, più ricevono. È, però, necessario considerare che molte Regioni italiane sono state sottoposte a duri piani di rientro per cui non hanno, per esempio, potuto investire in personale, strumentazione, farmaci, ecc.

A titolo di esempio, nel periodo 2001-2010 le Regioni sottoposte al piano di rientro hanno registrato un incremento della spesa del 19% rispetto a quasi il 27% delle altre Regioni le quali, tra il 2006 e il 2011 hanno ricevuto aumenti del 9% mentre le prime, profondamente indebitate, subirono una riduzione della spesa reale pari allo 0,6%: la Sicilia ridusse la spesa per oltre il 10%, l’Abruzzo per il 4,4%, il Lazio per il 3%, la Campania per quasi il 2%.

In altre parole le Regioni con meno debiti hanno potuto aumentare la loro spesa; quelle sottoposte ai piani di rientro l’hanno dovuta contrarre. Giustissimo, nulla di sbagliato.

Tuttavia, se si dovesse finanziare il Servizio Sanitario Regionale sulla base della “spesa storica”, nonostante i debiti ormai quasi del tutto ripianati, le Regioni che negli anni hanno speso poco (o, addirittura, hanno ridotto la spesa) sarebbero finanziate meno di quelle che hanno potuto investire di più in personale e tecnologia.

Ovviamente tale sperequazione sarebbe inaccettabile e un modo serio di affrontare la rimodulazione del Servizio Sanitario dovrebbe iniziare dall’adeguamento delle strutture sanitarie delle aree che, negli anni passati, hanno dovuto stringere la cinghia. Naturalmente, questo sarebbe possibile ottenerlo soltanto con un Servizio Sanitario che torni a essere “Nazionale” e non “Regionale”.

Ho affrontato soltanto una piccolissima parte della questione perché essa è incredibilmente complessa anche per chi ha le idee chiare. Però si dovrebbero fissare dei punti di partenza con una visione “socialista” della salute pubblica elevando agli stessi standard tutti i cittadini della Repubblica.

In mancanza di questa visione “socialista” continueremo a pagare le tasse in modo omogeneo per ottenere disomogeneità nei servizi. E questo è inaccettabile.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *