La verità è che il Servizio Sanitario Nazionale, creato dalla legge 833 del 1978, sostanzialmente non esiste più in quanto dal 2001 la competenza sulla salute dei cittadini è stata assegnata al controllo regionale. Dunque, il Servizio Sanitario Nazionale è stato trasformato nel Sistema Sanitario Nazionale che raccoglie i Servizi Sanitari Regionali. Il problema è che, di fatto, ogni Regione ha organizzato la tutela della salute dei cittadini in modo autonomo e indipendente giacché, con l’eccezione della garanzia dei Livelli Essenziali di Assistenza, i cosiddetti LEA, che sono definiti dal Ministero, non esistono regole che siano valide per tutti. Facciamo qualche esempio. In alcune Regioni italiane le strutture sanitarie sono organizzate in Aziende sociosanitarie territoriali che accorpano aree di territorio più o meno equivalenti per popolazione; in altre Regioni le Aziende Sanitarie sono organizzate su base provinciale; in altre ancora per Area Vasta; in alcune Regioni si hanno le Aziende Uniche che accorpano gli ospedali, i policlinici universitari e il territorio; altre Regioni hanno creato enti sovra-aziendali per la gestione delle funzioni tecniche e amministrative. Poi ci sono differenze nella gestione delle reti di emergenza e urgenza che in alcune Regioni sono su base distrettuale e in altre accentrate in strutture regionali. Alcune Regioni hanno instaurato un rapporto competitivo con la sanità privata ed altre un rapporto complementare. Infine, sussistono differenze anche nella erogazione di alcuni servizi, come – ad esempio – lo psicologo convenzionato di base che esiste soltanto in Campania. Dunque, parafrasando l’antico proverbio, Regione che vai, sanità che trovi! Eppure, ci sono alcuni punti che, a prescindere dalla autonomia “di fatto” che ormai le Regioni hanno sulla salute dei cittadini, andrebbero fissati da linee di indirizzo ministeriali e non lasciati alle singole iniziative regionali.

Ad esempio, nonostante la complementarità, la “mission” della sanità territoriale è profondamente diversa da quella degli ospedali, per cui sarebbe saggio fornire linee di indirizzo ministeriali che definiscano la separazione delle aziende territoriali, che possono anche essere organizzate su base provinciale o per area vasta, da quelle ospedaliere che dovrebbero essere sganciate da tutte le attività sanitarie che non siano cliniche. Le Aziende Territoriali, infatti, hanno numerosi compiti non clinici quali le attività di prevenzione, la sanità veterinaria, la medicina scolastica, e tante altre, che poco hanno a che fare con la gestione clinica della patologia acuta di ascrizione ospedaliera. D’altra parte, ha poco senso organizzare la sanità ospedaliera su base provinciale giacché spesso, in prossimità del confine territoriale delle province, si trovano presìdi ospedalieri che insistono su territori provinciali diversi e che, per forza di cose, entrano in competizione per le stesse patologie con le medesime unità operative. Del resto, ha poco senso continuare a mantenere i piccoli presìdi ospedalieri dipendenti dalle Aziende Territoriali in quanto, molto spesso, per mancanza dell’insieme di specialità in grado di gestire le complessità cliniche, erogano prestazioni molto al di sotto di quei livelli minimi stabiliti dal Piano Nazionale Esiti.

Vediamo di chiarire un po’ meglio questi concetti. Oltre dieci anni fa il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 ha indicato come irrinunciabile la riconversione dei piccoli ospedali giacché tale riconversione avrebbe giocato un ruolo definito fondamentale nella creazione della rete ospedaliera e nel potenziamento della rete territoriale. Il Ministero ha chiarito che i piccoli ospedali hanno una difficoltà oggettiva ad acquisire adeguate caratteristiche di complessità che permettano di garantire nel tempo il mantenimento ed il perfezionamento delle competenze professionali, con raggiungimento dei livelli di sicurezza richiesti nella erogazione delle prestazioni per minimizzare i rischi per i pazienti ed implementare continuamente la casistica degli stessi operatori.

Tuttavia, il nostro Paese, più di qualsiasi altro al mondo, ha tantissimi piccoli ospedali disseminati su tutto il territorio nazionale, più al Sud che al Nord in verità, il più delle volte privi di quei requisiti di sicurezza che possano garantire la gestione delle emergenze. Nel 2020 l’Università Bocconi di Milano ha pubblicato il rapporto OASI (Osservatorio sulle Aziende e sul Sistema sanitario Italiano) nel quale è descritta molto efficacemente la situazione della rete ospedaliera italiana. Gli autori del rapporto hanno identificato con chiarezza un cospicuo numero di strutture ospedaliere che sono state definite di dimensioni insufficienti e pertanto pericolose per raggiungere la minima massa critica di attività necessaria in sanità per lo sviluppo di competenze cliniche che diano sicurezza ai pazienti e che possano garantire la produttività. Gli ospedali “pericolosi”, nell’analisi pubblicata dall’Università Bocconi, raggiungono un rischioso 30% delle strutture ospedaliere. Però, guardando alla distribuzione su base nazionale di questi ospedali “pericolosi”, essi sono maggiormente rappresentati in quelle Regioni italiane nelle quali l’assistenza sanitaria è carente. Inoltre, tutti questi piccoli e pericolosi ospedali sono dotati di Pronto Soccorso. Questi Pronto Soccorso, stante l’elaborazione dei dati messi a disposizione dal Ministero della Salute, gestiscono appena un codice rosso ogni 3 o 5 giorni, a seconda che abbiano più o meno di 96 posti letto, ed hanno avuto una media di 5 accessi al giorno in codice giallo e da 10 a 21 accessi in codice verde. Cifre che, da una parte sono imbarazzanti, ma che da un’altra parte dovrebbero indurre i legislatori a insistere sulla necessità di convertire i piccoli presìdi ospedalieri in strutture a bassa intensità di cure.

Sono medico ospedaliero da oltre 30 anni e pressoché da sempre, in tutti gli ospedali dove ho lavorato, è avvertita la mancanza di posti letto per la riabilitazione o per la lungodegenza e questo nonostante moltissimi presìdi ospedalieri di piccole dimensioni potrebbero con minimo sforzo essere convertiti facilmente in strutture riabilitative o dedicate proprio alla lungodegenza dove trasferire tutti quei pazienti che, superata la fase acuta della malattia che ha determinato il ricovero, non sono ancora nelle condizioni ottimali per rientrare al proprio domicilio in quanto necessitano di cure per il completo recupero funzionale.

Inoltre, si deve anche considerare che, togliendo dai piccoli presìdi i Pronto Soccorso che, in mancanza di tutte quelle specialità che nel loro insieme contribuiscono alla gestione delle emergenze sono piuttosto pericolosi soprattutto per le situazioni tempo-dipendenti, si recupera personale medico e infermieristico che sarebbe possibile impiegare nei Pronto Soccorso più grandi, spesso distanti pochi chilometri, e che soffrono per la carenza di personale. Stesso discorso per i servizi non clinici indispensabili per il funzionamento dei Pronto Soccorso, quali le radiologie o i laboratori analisi.

Senza contare che il mantenimento dei piccoli ospedali, proprio a causa della dispersione di risorse umane, è una delle cause della migrazione sanitaria che costa tantissimo soprattutto alle Regioni meridionali.

Si tratta di interventi coraggiosi sul piano politico in quanto, molto spesso, i piccoli ospedali sono difesi dalla politica locale che sul loro mantenimento sviluppa consenso elettorale. Tuttavia, gli interventi, soprattutto di politica sanitaria, andrebbero fatti in modo onesto nell’interesse dei cittadini e non della politica locale che sfrutta e spesso incita il malumore dei cittadini. Spiegare perché è nell’interesse del cittadino la conversione di un piccolo ospedale in strutture a bassa intensità di cure è attività faticosa e probabilmente difficile per chi, invece, preferisce accumulare consenso spacciandosi per difensore di un diritto alla salute che è comunque negato in questi piccoli e pericolosi ospedali.

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