Qualche giorno fa il Ministro Orazio Schillaci è intervenuto in audizione in commissione Affari Sociali alla Camera in merito all’indagine sulla medicina di emergenza e sul sovraffollamento dei Pronto Soccorso degli ospedali italiani.
Nell’ambito dell’audizione il ministro Schillaci ha fatto una panoramica sia degli accessi ai Pronto Soccorso, sia della carenza di professionisti che decidono di dedicare la propria attività professionale ai servizi di emergenza-urgenza, ma ha anche evidenziato alcune criticità in merito alla difficoltà per i medici di Pronto Soccorso di trovare posti letto per il ricovero di pazienti che necessitano di cure ospedaliere.
Partiamo dai numeri perché ci danno alcune iniziali informazioni.
Secondo i dati del Ministero, nel 2022 nei Pronto Soccorso italiani sono stati registrati oltre 17 milioni di accessi. Di questi accessi, secondo la nuova nomenclatura dei colori per stabilire il livello di urgenza, il 12% sono stati accessi in codice bianco, il 50% in codice verde, il 19% in codice azzurro, il 17% in codice arancione e il 2% in codice rosso. Giusto per capirci, le urgenze sono classificate con il codice arancione e le emergenze con il codice rosso. Gli altri codici sono urgenze differibili, cioè l’azzurro, oppure non urgenze codici verdi e soprattutto codici bianchi.
Questi dati non sono diversi da quelli pubblicati qualche anno fa dalla ANAAO che ha riscontrato come nell’anno 2013, dunque quasi dieci anni fa, soltanto l’1% dei 24 milioni di accessi nei Pronto Soccorso italiani siano state delle vere emergenze, soltanto il 18% delle urgenze e come il resto degli accessi siano stati codici verdi e bianchi, ovvero delle non urgenze e delle non emergenze.
Diciamo dunque che i dati forniti dal Ministero e relativi all’anno 2022 sono più o meno in linea con l’andamento storico dei nostri Pronto Soccorso. E questi numeri rappresentano una criticità in entrata, rappresentando l’eccessivo ricorso ai servizi di emergenza e urgenza per situazioni che dovrebbero trovare risposte alternative. Possiamo ovviamente ricercare decine di cause per spiegare il fenomeno del ricorso ai Pronto Soccorso da parte dei cittadini italiani anche per situazioni “non urgenti”, ma personalmente sono convinto che la principale, se non unica, causa sia da ricercare nella difficoltà che gli utenti incontrano nel rapportarsi al proprio medico di medicina generale.
Ma andiamo oltre perché adesso le cose si fanno più interessanti.
L’altro aspetto analizzato dal Ministro in occasione della sua audizione è stato il sovraffollamento dei Pronto Soccorso che è spiegato soltanto in parte dall’eccessivo ricorso alle cure ospedaliere anche per situazioni che troverebbero risposte alternative.
Una quasi insormontabile difficoltà dei medici di Pronto Soccorso è il ricovero dei pazienti nei reparti ospedalieri che molto spesso sono pieni. E qui dobbiamo chiederci il perché. Cioè, perché molti reparti ospedalieri non riescono a dimettere i pazienti dopo avere affrontato e risolto la fase acuta che ha determinato il ricovero?
Preliminarmente dobbiamo chiarire che la visione “moderna” della sanità (e soprattutto della sanità pubblica) dovrebbe inquadrare il ricorso al ricovero ospedaliero come una sorta di “ultima ratio” allorché la medicina del territorio, e dunque la medicina generale e la medicina ambulatoriale, non sia riuscita a fronteggiare determinate condizioni patologiche, oppure nei casi di urgenza ed emergenza.
Detto questo, è importante capire che al momento della dimissione e soprattutto al momento della dimissione dei pazienti più anziani, si incontrano grandissime difficoltà dovute proprio alla ospedalizzazione: molto spesso i soggetti ricoverati, e in particolare i più anziani, durante la degenza ospedaliera, vanno incontro a scompenso delle patologie di cui sono portatori, dal diabete all’ipertensione, al disorientamento, ai deficit della motilità, fino ai casi più seri delle infezioni ospedaliere. Inoltre, molti pazienti, e soprattutto i pazienti anziani, molto spesso non dispongono di una rete familiare in grado di assisterli nell’immediatezza della dimissione; assistenza che si rende frequentemente necessaria perché, per esempio, l’allettamento dovuto alla condizione di ricovero per una malattia acuta, depaupera il patrimonio muscolare ed hanno pertanto bisogno di un certo numero di giorni, più spesso di qualche settimana, per potere recuperare le funzioni motorie. Queste sono situazioni con le quali tutti noi clinici ci confrontiamo tutti i giorni.
Abbiamo visto in uno degli articoli già pubblicati come in Italia si sia stabilito che i posti letto per le patologie acute debbano essere 3,1 ogni mille abitanti, pur con ampie variazioni tra le Regioni. Questa percentuale, che è di molto inferiore per esempio a quella tedesca, potrebbe paradossalmente anche essere sufficiente se ci fosse una sorta di valvola di sfogo per i reparti per acuti nelle lungodegenze e nelle riabilitazioni. E il posto più indicato per la realizzazione di questi reparti dove trasferire i pazienti che abbiano superato la fase acuta della malattia sarebbero, in linea con quanto previsto dal Piano Sanitario Nazionale del 2011-2013, tutti quei piccoli ospedali che, per mancanza di professionalità e di Unità Operativa a elevata specializzazione, sono poco utili per la gestione delle situazioni più complesse.
Al contrario di quello che sarebbe logico (e anche doveroso fare nell’interesse dei cittadini) la Politica dei piccoli centri dove sono presenti tutti questi piccoli ospedali si oppone alla riconversione e, anzi, fa le barricate per il mantenimento di reparti e pronto soccorso che quasi mai sono efficienti ed efficaci. Non vorrei sembrare eccessivamente rigido, ma questo sistema di guardare alla politica che insegue gli umori degli elettori piuttosto che il loro interesse rappresenta quanto di più inutile e pericoloso per i cittadini. Ma andiamo oltre.
Un altro punto toccato dal Ministro Schillaci nella sua audizione è stato quello relativo alla mancanza di medici e infermieri nei nostri ospedali. Il Ministro ha riportato dei dati che dobbiamo considerare provenienti dai riscontri ufficiali e pertanto veri.
Nel nostro Sistema Sanitario, in riferimento agli ospedali, – ha detto il Ministro – sono mancanti 4500 medici e circa 10.000 infermieri. Anche su questo punto dobbiamo, tuttavia, fare un attimo di chiarezza.
Nel nostro Sistema Sanitario sono contati 405 medici ogni 100.000 abitanti; ed un bel numero, direi! In Francia il Sistema Pubblico ne conta 336 ogni 100.000 abitanti e non sembra che i nostri cugini d’oltralpe abbiano una sanità peggiore della nostra; anzi!
Cosa c’è che non va, allora? Perché in Italia abbiamo proporzionalmente più medici che in Francia, eppure continuiamo a lavorare in sofferenza per la mancanza di personale? È possibile che nel nostro Paese il personale medico (e, di conseguenza, anche infermieristico) sia distribuito male nel tessuto ospedaliero? Ovvero – e qui la Politica nazionale dovrebbe seriamente interrogarsi e trovare soluzioni – è possibile che quanto stabilito dal Piano Sanitario Nazionale del 2011-2013 avesse lo scopo di migliorare e razionalizzare anche la distribuzione del personale sanitario nei reparti ospedalieri attraverso la riconversione in strutture a bassa intensità di cure (quindi reparti di lungodegenza e di riabilitazione, cioè quello che davvero manca ai clinici) i piccoli ospedali? Purtroppo, questa è una risposta che non avremo mai, giacché l’intero piano di riconversione è stato ampiamente disatteso a causa delle opposizioni della politica locale; da Nord a Sud.
L’ultimo punto toccato dal Ministro è stata la scarsa attrattività di alcune specializzazioni che sono percepite non solo a elevato rischio (sia fisico che giuridico) dai medici, ma anche scarsamente redditizie. Le parole di Schillaci sono inequivocabili. Ha detto infatti che la stragrande maggioranza delle scelte dei giovani medici ricadono su specializzazioni per le quali sia possibile una libera attività autonoma. I contratti per le specializzazioni dell’area di emergenza e urgenza (quindi proprio per i medici di pronto soccorso) nell’anno 2021 sono stati appena il 53% di quelli disponibili e il dato è peggiorato sia nel 2022 che nel 2023 giacché, nell’ultimo anno, soltanto il 29% dei posti previsti sono stati presi dai giovani medici.
Le soluzioni al problema sono, in questo caso, più complesse. Innanzi tutto, si dovrebbe rendere maggiormente attrattiva l’attività nei servizi di emergenza e urgenza prevedendo, per esempio, una indennità che non sia di pochi spiccioli a chi lavora nei Pronto Soccorso e poi, e di non secondaria importanza, immaginare uno scudo sia fisico che giuridico per i colleghi che con sacrificio lavorano in situazioni di emergenza e di urgenza. E questo perché un conto è prendere decisioni nella calma di un reparto, anche di alta specializzazione, dove puoi decidere con calma, con i giusti tempi, con l’adeguata sicurezza i percorsi diagnostici e terapeutici, ma tutt’altra cosa è prendere decisioni nelle emergenze e nelle urgenze. E in un Paese che ha fatto del merito una delle proprie bandiere, riconoscere anche sotto il profilo economico il merito di chi sta in prima linea sarebbe (o potrebbe essere) un interessante incentivo.
Ovviamente, tutto quanto esposto, in mancanza di linee di indirizzo nazionali, si scontrerà inevitabilmente con le intenzioni dei vari assessorati regionali deputati alla gestione della salute dei propri cittadini giacché, in vista della Autonomia Differenziata, ogni Regione farà quasi certamente molto peggio di ciò che accade adesso, come vorrà. E non è detto che tutte le decisioni prese a livello regionale siano davvero nell’interesse dei cittadini.
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